In greco antico il verbo “ποιέω. fare” corrispondeva al nostro “costruire, fabbricare”. Si diceva dell’artigiano, del fornaio, del falegname, del muratore, dell’ebanista e del poeta.
Fare le poesie, riconoscendo alla poesia un valore economico e sociale e, non solo come diletto dell’anima. Questo per l’antico greco popolo era poesia.
La capacità del poeta di “maneggiare il metro” era maestria.
Oggi che ha la musa Calliope ha smesso di cantare dall’Elicona monte, a mala pena riconosciamo il valore di un verso.
Scontata è la maestria regalata da un ottativo che nasconde il desiderio tra l’essere, il fare e il desiderare.
Rifletti, perché poeta fai poesia? Corro dietro a un verso che catturi il filo di fumo lasciato da un sogno.

Il “segno” di un verso è la materializzazione empatica del “sogno” che si realizza esplicando la significazione in parole di un dato emotivo.
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L’arte del poeta
M’inedia il tempo sospeso
che pongo come rimedio
, senz’esito alcuno,
al progresso ritroso della mia stanchezza
C’aggiungo i versi
placebo che incarna l’arte del poeta
che trae incanti
dal discernere
crisalidi da farfalle
fischi per fiaschi
grida dai silenti.
Sormonta gli anni
raggrumati a volte
in un solo emo-pensiero
che speme l’eterno
e fallisce talvolta incompiuto
come adesso
che smemoro già la prima strofa
agognando però
l’immemore dell’ultima:
saper sapere
è l’ignoranza a cui nessuno in fondo
sa porre rimedio.
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